Dieci anni fa morirono 368 persone al largo di Lampedusa. “Mai più”, si disse. Ma oggi l’opinione pubblica sembra anestetizzata. Leggi
. Quello avvenuto a cinquanta metri dalla spiaggia calabrese in cui sono morte 94 persone. Un collega e un amico mi ha mandato un messaggio, dopo aver visto un articolo che avevo scritto sul naufragio. Il messaggio diceva così: “Non riesco più a leggere queste storie, lo faccio con una fatica enorme. Ma grazie naturalmente”.
Di Cutro mi rimaneva nella testa anche un suono che m’impediva di accettare con serenità quel “grazie”: le urla strazianti di una donna piegata su una di quelle bare, accovacciata sulla foto della sorella. Era arrivata in Calabria da Rotterdam, nei Paesi Bassi, per dare un nome a quella foto e riconoscere il volto della sorella tra quello dei morti. La defunta aveva un nome, aveva una famiglia.
Le stesse domande si sono ripresentate a giugno, quando un peschereccio con 750 persone a bordo si è inabissato al largo di Pylos, in Grecia. Era partito dalla Libia. Settecentocinquanta persone stipate in un peschereccio si fa fatica perfino a immaginarle. Tra loro c’erano cento bambini. Una conduttrice di un programma d’informazione su una tv greca si è lamentata che tutte le ambulanze del Peloponneso stessero accorrendo a Kalamata per soccorrere un centinaio di sopravvissuti del naufragio. “Stiamo lasciando i greci senza ambulanze”, ha detto.
Non è sempre stato così: è nel 2001 che per la prima volta l’immigrazione in Italia è stata al centro della campagna elettorale in Italia. Ne parla in maniera esaustiva lo storico Michele Colucci nel suo. Mentre aprivamo le frontiere interne tra stati europei, costruendo il sistema di Schengen, abbiamo cominciato ad erigere muri visibili e invisibili per tenere fuori i non europei.
Questo è servito a giustificare i respingimenti e gli accordi con gruppi armati e governi autoritari dall’altra parte del mare. Ma alla criminalizzazione di certa politica, spesso si è contrapposto un lessico e una cultura vittimizzante, altrettanto disumanizzante. Ignoriamo infine le comunità di stranieri residenti e i loro figli, che già sono di fatto naturalizzati, ma senza diritti. Più di un milione di bambini nati in Italia da genitori stranieri non ha accesso alla cittadinanza, con tutto quello che significa, a causa di una legge molto vecchia, che è stata scritta nel 1992.
“Ne usciremo migliori?”, ci chiedevamo nei primi giorni della pandemia di covid-19 nel marzo 2020. C’era una speranza diffusa e malriposta che la catastrofe fosse una specie di rivoluzione, come se la natura potesse fare delle battaglie per noi e cioè potesse distruggere i rapporti di forza tra oppressori e oppressi, lasciando spazio a modelli di vita e lavoro più giusti.
Per questo durante e dopo una catastrofe le parole devono essere più vicine al parlato e allo stesso tempo più vicine alla verità. Nel 1949 il filosofo Theodor Adorno disse che scrivere una poesia dopo Aushwitz era un atto di barbarie. Nel suo piccolo saggio la giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič riprende quelle parole di Adorno e dice che in una catastrofe “inventare non si può, la verità va offerta tale e quale, a parlare devono essere i testimoni”.
Le immagini della violenza della frontiera, delle torture nei centri di detenzione libici, soprattutto per chi è distante, sono la frontiera stessa. In un ambiente informativo dominato dalle immagini la fotografia delle atrocità rischia di trasformarsi velocemente in un già visto , in un cliché che può rapidamente essere archiviato nel cassetto di una memoria sempre più insensibile e anestetizzata.Tra l’altro i social network come mezzo principale di fruizione di quelle foto hanno estremizzato la rapidità del passaggio dallo shock all’indifferenza, che pure c’era anche in altri mezzi come i giornali o la tv.
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