Molti grandi marchi del made in Italy avevano scelto la Romania per realizzare i loro capi. Poi Bucarest ha alzato il salario minimo e diverse aziende hanno imposto ai fornitori condizioni insostenibili. O hanno lasciato il paese. Leggi
Linda non sa di preciso quanti soldi le servirebbero per comprare un paio di quelle scarpe che confezionava ogni giorno. “Probabilmente più di un mio stipendio mensile”, dice con un’espressione un po’ tirata. Fino a un anno e mezzo fa, questa allegra donna romena sulla cinquantina lavorava in una fabbrica che produceva calzature per grandi marchi del lusso, in particolare Gucci, Christian Dior e Tod’s.
Il meccanismo ha funzionato talmente bene che in Romania è nato un vero e proprio comparto produttivo, con tantissime fabbriche in appalto e alcune gestite direttamente dai marchi, come la pelletteria aperta da Prada nella zona industriale di Sibiu. Nel 2019 il settore della moda impiegava in Romania più di duecentomila persone. Si produceva a costi bassissimi e vicino all’Italia, il che permetteva di ottenere profitti altissimi.
“È bene scardinare una narrazione basata su due assunti completamente falsi: il primo è che poiché si produce in Europa lo si fa in modo etico; il secondo è che il comparto del lusso, che fa utili enormi, paga in modo adeguato il lavoro”, dice Laura Stefanut, presidente della Haine curate , un’ong romena aderente alla rete globale della Clean clothes campaign.
Nessuno dei tre gruppi ha accettato di versare indennizzi alle lavoratrici licenziate. Christian Dior è l’unico ad aver risposto alle nostre richieste di chiarimento: “Abbiamo condotto un’indagine interna. La revisione ha confermato che il fornitore italiano di Dior, in relazione all’azienda romena Selezione, ha rispettato le normative locali, ribadendo il nostro impegno a garantire pratiche etiche e legali lungo tutta la nostra catena di fornitura”.
Nel corso delle indagini, a quanto si legge nel procedimento contro la Manufactures Dior, “è emersa una prassi illecita così radicata e collaudata da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa esclusivamente diretta all’aumento del profitto. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee ed isolate di singoli, ma di una illecita politica d’impresa”.
Proprio in seguito ai fatti esposti dalla procura di Milano, il garante per la concorrenza ha avviato un’istruttoria su Armani e Dior per possibili condotte illecite nella promozione e nella vendita dei prodotti. Secondo l’agenzia, i due marchi avrebbero presentato i propri prodotti come artigianali e frutto di una filiera etica, quando in realtà si appoggiavano a fornitori che non pagavano in modo adeguato i lavoratori e non garantivano condizioni sanitarie e di sicurezza corrette.
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