In Islanda c'è un corso d'acqua che ha entrambi i nomi, perché è difficile stabilire la dimensione di qualcosa e perché tutto cambia, anche la terra e il clima
Poco oltre Ásbyrgi, procedendo verso l’entroterra, dominano gli spruzzi iridati di Dettifoss, la cascata più poderosa del continente. Di quale continente, be’, è un’ottima domanda, dal momento che quest’area giace per intero nella Zona Vulcanica Nord, vale a dire nell’estremo più settentrionale della faglia a forma di boomerang che incide l’Islanda, tagliandola geologicamente in due: di qui il Nordamerica, di là l’Eurasia.
Lo Jökulsá scorre pertanto da sud verso nord, erodendo gli altipiani lavici, scavando scenografiche gole e infine immettendosi, a meno di otto chilometri dal mio teatro, nel mar di Groenlandia: il suolo che calpesto l’ha generato lui, letteralmente, nel confusionario andirivieni tipico dei fiumi glaciali. Sebbene tracce dello Jökulsá siano ovunque intorno a me, non è il suo corso a definire i confini del territorio di pertinenza dell’Hótel Skúlagarður.
Per questo in Islanda è sconsigliato avventurarsi in aree ad alta densità di sterne, o comunque non senza caschetto da bici in testa e bastone di difesa tra le mani. Inconfondibile il suo verso intimidante: un urlo acuto, stridulo, che in lingua islandese le ha procurato l’onomatopeico nome di.
La sorgente fredda del Litlaá è invece un lago che fino a 47 anni fa non esisteva nemmeno. Si formò nel gennaio 1976 in seguito a un terremoto di magnitudo 6.3, una delle più violente spezzature occorse sull’isola in tempi storici: la placca eurasiatica e quella nordamericana scattarono in direzioni opposte, la terra di mezzo sprofondò e una delle innumerevoli falde acquifere serpeggianti nel sottosuolo lavico conobbe la luce sotto forma di lago.
Confortato dalla soluzione dell’enigma – e dalla dipartita delle sterne artiche verso i loro lidi antartici – dai primi di agosto in avanti ho finalmente potuto risalire il corso del Litlaá. Con un caffè in una mano e app d’identificazione di piante e fiori nell’altra, ho preso a seguire la piccola traccia nell’erba, non più larga di un palmo, che segue pedissequamente l’andamento del fiume, sempre a mezzo metro dalla riva o poco più.
Solo come d’Islanda e in pochi altri luoghi si può essere, nella settimana di prova gratuita dell’app di riconoscimento botanico ho imparato a distinguere piante dai nomi incredibili: coda di volpe dei prati, centocchio, parnassia palustre, ventaglina, caglio zolfino. A ridosso dell’alveo, ho conosciuto la grazia blu del nontiscordardimé delle paludi.
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