L'“io sono qui” del capo dello Stato inizia a riportare negli argini la discussione sulla giustizia. Mentre Meloni è al Quirinale, Mantovano (a nome della prem…
Si può dire così, per comprendere il senso. La politica, come noto, è fatta anche di segnali. Lo è l’incontro di circa un’ora tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, a margine della riunione del Consiglio Supremo di Difesa. Lo è stato quello del giorno prima quando, negli stessi minuti in cui la premier da Vilnius riaffermava l’intenzione di, al Quirinale sono stati ricevuti i vertici della magistratura italiana, che si sentono sotto attacco.
Si scrive Alfredo Mantovano, si legge Giorgia Meloni. Frasi così impegnative dal cuore di palazzo Chigi non si pronunciano senza mandato del premier. Che – e non è un dettaglio – nel momento in cui viene rilasciata la dichiarazione è al cospetto del capo dello Stato, ed è un segnale pure questo.
La notizia – gli incontri al Quirinale e il primo tentativo di tornare negli argini – parla da sola, come si dice in questi casi. E racconta proprio questo: del valore di una presenza, un “io sono qui” del capo dello Stato, nelle forme che gli sono proprie. Ad esse è estranea la prassi del “monito”, della “bacchettata”, dell’intervento a piedi uniti nella quotidianità.
A proposito: è semplicemente lunare pensare che non debba autorizzare la presentazione in Parlamento di una legge di riforma, confondendo questo via libera con l’esame di costituzionalità che si fa quando una legge si promulga. Peraltro in Parlamento possono succedere molte cose: non sarebbe la prima volta che un testo cambi o si insabbi.
L’“io sono qui” è la riaffermazione di un ruolo, diciamo così, di vigilanza costituzionale, che nei momenti di sgrammaticatura e di alta tensione è di per sé temperante, come attestano i primi effetti.
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